I mercati cadono prima dei conflitti e salgono durante gli scontri bellici
Le Borse restano nervose. Certo: l’Europa, ieri, ha chiuso in leggero rialzo (+0,22% per Milano). E, però, nonostante sia un po’ scesa, la volatilità ha resistito su valori non bassi (in serata il Vix viaggiava oltre quota 32). Un effetto, anche, dei venti di guerra sull’Ucraina. Un potenziale conflitto che, da una parte, può significare orrore e morte; ma che dall’altra, dal cinico punto di vista dei mercati, è una variabile geopolitica da monitorare. Un possibile evento il quale – unitamente a pandemia, inflazione e stretta di politica monetaria – è entrato nei radar degli investitori. Che si domandano: quale può essere l’impatto di una guerra sulle Borse? Rispondere è complesso. Una mano può darla il passato. Come? Analizzando, nella storia, cosa hanno fatto i listini con l’elmetto. In generale, nel secolo scorso, i mercati sono sempre saliti in concomitanza degli scontri. È accaduto durante le due guerre mondiali con il Dow Jones che, secondo i calcoli del Sole 24 Ore, ha guadagnato (al netto dell’inflazione) rispettivamente il 21,2% e il 23%. Certo: ogni conflitto è storia a sé. Molte sono le differenze da considerare: dal numero di nazioni coinvolte alla durata della guerra fino alla sua localizzazione geografica e al susseguirsi degli eventi. In tal senso durante la II° Guerra mondiale Wall Street (Borsa di un Paese coinvolto ma non materialmente distrutto dalle bombe) in una prima fase è calata. Poi però a inizio primavera del ’42 – quando, in scia alla sconfitta navale del Giappone alle isole Midway e al volgere della Battaglia di Stalingrado in favore dell’armata sovietica, si comincia a pensare che gli Alleati possano vincere la guerra – il mercato Usa ha iniziato a risalire. È uno di quelli che gli esperti chiamano: punti di svolta. Momenti in cui, aumentando la fiducia sull’esito positivo delle ostilità, si comincia a pensare, ad esempio, alla ripresa degli scambi internazionali e alla futura ricostruzione.
Il war rally, nonostante differenti motivazioni e peculiarità, si è confermato anche in concomitanza di guerre storicamente più vicine. Così è stato per la Corea (+19,6% del Dow Jones), il Vietnam (tra il 6 agosto del ’64 e il 27 gennaio del ’73 il paniere è salito del 20,5%) e le stesse due guerre del Golfo. Insomma: il mercato azionario non disdegna affatto l’elmetto. Anzi! A ben vedere, i listini perdono terreno prima che l’eventuale guerra scoppi. Poi, rialzano la testa nel momento in cui il cannone inizia a tuonare. Mark Hulbert, in un noto studio, ha passato ai raggi X il comportamento del mercato statunitense in sette conflitti: Grenada ’83; Panama ’89; Guerre del Golfo ’91 e ’03; Afganistan ’01 e Libia ’11. È saltato fuori che, in media, nel mese antecedente all’avvio delle ostilità il mercato americano ha perso in media lo 0,6%. Successivamente invece, nei primi trenta giorni di guerra, è cresciuto del 4% per, poi, aumentare fino al 7,2% nell’arco di sei mesi. Si dirà: è un controsenso. Le Borse, sperando che il conflitto non deflagri, dovrebbero non crollare. O, perlomeno, non salire dopo l’inizio dei combattimenti. In realtà il war puzzle è meno strano di quanto sembri. I listini odiano l’incertezza. Fino a quando non si sente il primo sparo, in un crescendo di volatilità, arrivano le vendite. Nel momento in cui al contrario, sottolinea sempre Hulbert, lo scenario di guerra si concretizza, l’alea viene meno e, prese le misure al nuovo contesto, partono gli acquisti.
Passato e presente
Fin qui le indicazioni che arrivano dalla storia. Queste, però, possono applicarsi anche all’attuale contesto? «È difficile prevedere cosa accadrà – risponde Lorenzo Batacchi, portfolio manager di Bper Banca-. Di certo, nel breve periodo, ci sarà maggiore volatilità ed incertezza». Dopodiché «la più forte interdipendenza, rispetto al passato, tra le varie economie potrebbe, da un lato, ridurre», visto lo stesso contesto di pandemia, «il rischio del conflitto»; ma dall’altro, «se si concretizzasse, implicherebbe un peggioramento – sempre nel breve periodo – dei mercati, soprattutto quelli europei». «Il Vecchio continente – fa da eco Fabrizio Quirighetti, capo investimenti di Decalia- dovrebbe, a quel punto, fare i conti con l’ulteriore rialzo dei costi energetici e il corrispondente calo della redditività delle aziende». Certo: «l’aumento della bolletta energetica potrebbe essere temporaneo. E, tuttavia, la turbolenza si farebbe sentire». «Anche perché -aggiunge Pasquale Diana, capo della Macro research di AcomeA Sgr – la Fed pare fermamente convinta nell’andare avanti con la stretta di politica monetaria finalizzata a contrastare l’inflazione». Alla luce degli stessi ultimi dati, «sembra molto improbabile aspettarsi un cambio di rotta su questo fronte». Semmai, come sottolinea Holger Schmieding di Berenger Economics, potrebbe «essere la Bce ad intervenire per garantire che l’effetto dello stimolo monetario, infastidito dal temporaneo shock, possa continuare a dispiegare i suoi effetti» su mercati finanziari ed economia reale.
Già, l’economia reale. A ben vedere, tornando alle lezioni della storia, uno degli aspetti che hanno contribuito all’espansione dei listini durante i conflitti è l’incremento dei titoli, e degli investimenti (in particolare pubblici), per l’economia di guerra (prima) e la ricostruzione (dopo). Un contesto in cui il moltiplicatore keynesiano della spesa ha dato una forte mano all’espansione economica. Viene da domandarsi, però, se la sempre maggiore pervasività della tecnologia purtroppo anche nel mondo militare), che ad esempio disintermedia molte infrastrutture socio-economiche, possa ancora consentire il concretizzarsi di un simile volano.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Fonte: Il Sole 24 Ore del 26/01/2022