C’è sempre meno spazio in Europa per il sostanziale status quo con cui negli ultimi 16 anni la Germania di Angela Merkel ha governato entrambe con grande abilità.
È tempo di svolte. Lo sa bene la coalizione tricolore guidata dal socialdemocratico Olaf Scholz, che coglie il vento del cambiamento con un programma di lavoro dalle spinte innovative dentro casa e fuori.
C’è però da chiedersi quanto i ritmi pacati con cui i 27 dell’Unione vorrebbero realizzare la propria meditata metamorfosi politico-strategica siano consentiti dai tumultuosi cambiamenti che scuotono l’attuale disordine mondiale in cerca di nuovi equilibri di potenza.
Non avrebbe potuto essere più sussultoria la vigilia del cambio della guardia a Berlino: triangolo Stati Uniti, Russia e Cina sotto stress crescente, Europa suo malgrado risucchiata nella mischia.
«Non credo che Putin, se davvero vuole veder passare il gas nel Nord Stream 2, rischierà di invadere l’Ucraina»: dopo l’incontro virtuale tra il presidente Joe Biden e lo zar del Cremlino, Jake Sullivan, il consigliere Usa alla Sicurezza nazionale, evoca così l’unica sanzione che davvero farebbe male alla geo-politica europea della Russia e non avrebbe pronti surrogati cinesi, come altre misure economiche o finanziarie.
L’altolà americano sul gas fa il paio con quello altrettanto netto del Cremlino sull’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Entrambi recepiti dagli interessati. Tanto che ieri Biden ha evocato un vertice chiarificatore tra alcuni paesi Nato e la Russia suscitando immediate ire e ansie nei paesi dell’Est, già provati dalla guerra ibrida in atto con la Bielorussia.
Comunque lo si guardi, il problema è essenzialmente europeo e tedesco. Ed è la stessa America a volerlo europeizzare sia perché il gasdotto della discordia collega direttamente Mosca e Berlino, sia perché Biden non si è presentato a Putin “da solo” ma coordinandosi con Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna per schierare con sé tutto il peso dell’Occidente democratico.
Anche il boicottaggio diplomatico Usa delle Olimpiadi di Pechino per i «crimini contro i diritti umani» della Cina, chiama direttamente in causa l’Europa. I suoi Paesi membri dovranno contarsi e decidere da che parte stare, se con Biden o con Xi, sul terreno di valori che sono i loro anche se spesso maneggiati con troppa spregiudicatezza.
Dopo il blocco cinese dell’export della Lituania colpevole di aver riconosciuto Taiwan e dopo il mega-vertice Usa delle democrazie in corso a Washington, sarà difficile per l’Unione restare neutrale.
Le pressioni esterne aumentano e tutte, in un modo o nell’altro, convergono sul vecchio continente costringendolo a scelte finora accuratamente evitate.
Non c’è solo il ricatto energetico di Putin, la dipendenza Ue dal gas russo verso il raddoppio, l’urgenza del controllo degli armamenti nucleari da estendere a Pechino, la pervasività degli investimenti della Cina nei gangli essenziali della sua economia, sistemi tecnologici, catene del valore e delle forniture. A stringerlo in una morsa soffocante c’è l’intesa russo-cinese sempre più stretta, le sinergie geostrategiche e forse dopo domani anche militar-nucleari.
Certo, a spingere Mosca nelle braccia di Pechino contribuisce anche la politica dell’America di Biden, la sua carica ideologica e volontà di leadership. Resta che mai come oggi, se non decide, l’Europa rischia di fare la fine del vaso di coccio tra quelli di ferro.
La scelta transatlantica è un punto fermo ma non basta più. Ci vuole un Occidente più coeso e dinamico: una solida eurodifesa che rafforzi la Nato, un nuovo patto di sicurezza euro-americano, già in cantiere, anche per fugare le ombre afghane. Un pilastro economico-tecnologico-normativo tra Ue e Usa che attinga al loro patrimonio comune: più del 40% del Pil e del commercio mondiali.
Con buona pace dell’Aukus, il patto difensivo tra Usa, Gran Bretagna e Australia, l’Europa non può però tagliarsi fuori dall’Indo-Pacifico: Ue e Asia insieme fanno il 60% del Pil e il 70% del commercio mondiali, più del capitale transatlantico. Per non finire nella trappola di mire e instabilità altrui, non ci sono alternative. La nuova Germania di Scholz insegue rinnovamento economico e modernizzazioni nel solco dell’atlantismo: potrebbe diventare il motore di una nuova Europa dove interessi nazionali e comune finalmente parlino una sola lingua. Per impellente necessità.
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Fonte: Il Sole 24 Ore del 10/12/2021