Il sistema di calcolo della base imponibile è molto diverso tra i 130 Paesi
di Alessandro Galimberti
In attesa che l’autunno metta le ruote agli accordi estivi sulla Global minimum tax – e cioè produca l’allegato tecnico in grado di portare contenuti alle dichiarazioni politiche di queste settimane – è già chiaro fin da ora che l’armonizzazione dei sistemi fiscali nazionali dovrà tendere, almeno idealmente, a una necessaria omogeneità di fondo.
La Gmt americana, che di fatto entra in modo risolutivo solo su uno dei due pilastri della proposta Ocse (il Pillar Two, quello “dedicato” ai paradisi fiscali), applica una percentuale minima uniforme sui redditi delle multinazionali: il 15% di aliquota per tutti è una modalità dichiaratamente semplice e intuitiva che si riferisce, però, a un sottostante (base imponibile) a dir poco variegato.
La determinazione del reddito tassabile dipende infatti da una serie di fattori che, in ogni Paese, hanno natura e una storia propria e soprattutto sono strettamente legate – pensiamo anche solo al caso italiano – alle stagioni della politica.
Non è un caso che lo scarto tra il carico fiscale “formale” su una società commerciale (la cosidetta corporate income tax) e l’aliquota effettivamente applicata (effective tax rate) sia ovunque molto ampio, e in definitiva a chi pianifica l’efficienza fiscale dei gruppi importa solo il secondo parametro. Indipendentemente dalla Cit ufficiale del Paese ospitante.
Il tema su cui valutare la riuscita della Gmt è proprio la possibilità di raffrontare su base omogenea i “campi di gioco” delle multinazionali, cioè le regole fiscali nazionali di ogni singolo Paese dove operano e dove producono profitti: in tal modo la clausola antielusiva scatterebbe tutte le volte che una società riuscisse a scendere “effettivamente” sotto l’aliquota Gmt dovuta grazie a un’amministrazione fiscale particolarmente “amica”.
Se, invece, la rete internazionale continuerà a poggiare su sistemi fiscali (ma anche civilistici) del tutto eterogenei, la possibilità di aggirare i nuovi standard tributari si ripresenterebbe esattamente come oggi, mutatis mutandis.
Ed è probabilmente questo il vero scoglio che le intese G7/G20/Ocse dovranno tentare di affrontare sui tavoli tecnici, consapevoli però che sulla sovranità fiscale – quantomeno sulle imposte dirette – gli Stati nazionali non hanno mai fatto mezzo passo indietro. La stessa Unione europea è riuscita nel tempo ad «armonizzare» – cioè a uniformare e a rendere di sua competenza – solo la Vat (l’Iva) ma nulla ha potuto nè voluto fare sulle imposte societarie (la corporate income tax), dove a 18 aliquote differenti su 27 amministrazioni (dal 10% della Bulgaria al 35% di Malta..) si abbinano altrettanti diversi sistemi di composizione e di determinazione della base imponibile.
L’equa redistribuzione globale del gettito fiscale che la riforma Ocse/Biden promette, al di là di suggestive dichiarazioni, poggia sull’adozione di regole sostanziali uniformi. Che però, se sono difficili da raggiungere per via pattizia mediante trattati bilaterali/multilaterali, ancor più ambizioso è cercare di trovarle su base spontanea, e per di più molte volte auto-punitiva.
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Fonte: Il Sole 24 Ore del 11/07/2021