di Maximilian Cellino
Anno nuovo, tendenze antiche. In Europa i rendimenti dei fondi viaggiano a una velocità più che doppia rispetto all’Italia, dove gli strumenti a disposizione dei risparmiatori continuano a essere zavorrati da commissioni ricorrenti ben superiori. I primi tre mesi del 2021 si sono infatti chiusi con un una performance positiva pari al 4,3% per i prodotti delle principali 30 case di investimento per masse gestite a livello europeo, che hanno doppiato i gestori italiani, capaci sì di realizzare risultati positivi (+2%), che tuttavia appaiono più che dimezzati rispetto alle medie continentali.
Il bilancio emerge dal consueto rapporto trimestrale elaborato dal centro studi di Tosetti Value, uno dei principali Multi-Family office in Europa, che passa in rassegna le performance (e anche i costi) di tutti i prodotti Ucits distribuiti in almeno un Paese europeo, classificati long-term fund, attivi e passivi (con esclusione degli Etf), gestiti dalle prime 250 società per attivi. I dati – che Il Sole 24 Ore è in grado di anticipare – si inseriscono in uno scenario che il 2020, pur con le sue turbolenze di mercato scatenate dall’epidemia Covid, non ha minimamente scalfito.
L’origine delle differenze
A favore dei risultati delle società estere sussistono certo elementi di base, quali la differente distribuzione dei prodotti fra la clientela. Non c’è dubbio infatti che la maggior concentrazione su quella componente azionaria che nei primi mesi del 2021 ha continuato a registrare ottime performance a livello globale (nel Vecchio Continente vale il 46,5% degli investimenti complessivi a fronte dell’appena 19,4% contenuto nei portafogli degli italiani, tradizionalmente più prudenti) abbia dato ancora una volta la spinta decisiva alle case di investimento estere.
Tutto questo continua però a sommarsi al tema dei costi, il cui livello medio annuo risulta per le Sgr italiane più alto rispetto a quelle estere nell’ordine dello 0,50% e in modo ormai strutturale. Anche nel primo trimestre 2021 gli oneri ricorrenti – le cosiddette ongoing charge, ovvero le commissioni di gestione, gli oneri di banca depositaria, i costi di revisione, eventuali altri costi fissi a favore della società di gestione che l’analisi ricava direttamente dai bilanci dei fondi – hanno infatti pesato per l’1,45% annuo per le principali 10 case italiane contro lo 0,97% delle top 30 europee.
Il nodo delle commissioni
Una differenza significativa che Tosetti Value individua, oltre che nel diverso mix di prodotti e asset class, essenzialmente anche nel fatto che i gestori internazionali possano contare su maggiori economie di scala, abbiano a disposizione nella propria gamma fondi passivi (generalmente meno onerosi) e abbiano un peso maggiore di investitori istituzionali (le cui classi sono anche in questo caso meno costose). Ma che non può prescindere da ulteriori considerazioni su un fattore cruciale che riguarda il tema delle commissioni: «In genere – sostiene il Centro Studi del Family Office – il costo “facciale” del prodotto racchiude impropriamente gli oneri sostenuti dall’investitore per la consulenza ricevuta per la sottoscrizione di quel prodotto».
In sostanza si paga anche per il collocamento del fondo, un costo la cui dimensione non è conosciuta dal sottoscrittore e che va a gravare anno dopo anno sul valore dell’investimento. A dimostrarlo è ancora una volta il bilancio da inizio 2018, l’arco temporale entro cui si svolge la ricerca e nel corso del quale i costi fissi hanno sottratto ai fondi italiani in alcuni casi anche il 7,56% di performance. Rendere più trasparenti ed esplicite queste commissioni, attraverso il cosiddetto unbundling (o spacchettamento) dei costi, potrebbe essere il primo passo per provare a colmare il divario che ci separa dal resto d’Europa anche sui fondi di investimento.
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Fonte: Il Sole 24 Ore del 04/05/2021