di Antonello Sanna
L’Italia si è caratterizzata negli ultimi 40 anni, a differenza degli Usa dove per anni si sono vendute azioni al telefono, per un Paese dove il segmento dei personal financial services era mera distribuzione di fondi e sicav, talvolta impacchettati in unit linked. In altre parole, strumenti di cui è difficile capire il costo. Si parla di commissioni di gestione, di Ter, di commissioni ricorrenti, tutti termini che dovrebbero giustificare il costo di questi strumenti, ma con scarso successo. Il legislatore ha cercato attraverso le due edizioni della Mifid di rendere obbligatoria la disclosure sui costi. Ma dal varo della Mifid 2 ne abbiamo viste di tutti i colori: rendiconti Mifid in ritardo di mesi, costi nascosti in una trentina di pagine di informazioni inutili, report scaricabili solo dal sito dell’azienda con login e password. La creatività italiana al servizio dell’opacità. Bizzarra anche la confusione sulla distribuzione dei fondi, vero tema della Mifid, in quanto il prelievo delle commissioni dalla gestione era già trasparente prima della direttiva. Esaltare chi fa gestioni patrimoniali per i rendiconti Mifid 2 è come scrivere «gluten free» sull’olio d’oliva, che è un alimento di per sé privo di glutine. Recentemente Mediobanca ha indagato sui costi dei fondi distribuiti dagli attori più rilevanti nel nostro Paese e ha tracciato un quadro sconfortante sugli oneri a carico dei clienti: mediamente del 3%, comprensivo delle commissioni di performance, che in molti casi vengono addebitate anche in caso di performance annuale negativa del fondo nonostante le indicazioni dell’Esma e di Iosco.
Morningstar, che detiene il più grande database al mondo di fondi e sicav, ha pubblicato un report concernente «Fees and expenses» per 26 Paesi, classificati in cinque categorie di rating. Domanda da un milione di dollari: dove si è posizionata l’Italia? Non era difficile: nell’ultima categoria assieme a Taiwan e dietro a Paesi come la Cina, il Sudafrica e la Corea. Un posizionamento inaccettabile per un Paese che si distingue per la propensione al risparmio. Non è neanche accettabile che si parli di educazione finanziaria trasferendo in modo surrettizio la responsabilità sui clienti, i quali giustamente pagano un consulente per avere consigli sui propri investimenti esattamente come si paga il medico, l’avvocato e il commercialista. E’ pensabile che il cliente modello diventi esperto di ogni materia? «Ma mi faccia il piacere», direbbe il grande Antonio de Curtis. Il mercato dei Pfs si caratterizza per un vizio all’origine, ben sepolto sotto il termine consulente, che non a caso è stato recentemente utilizzato per definire la categoria degli ex-promotori finanziari. La remunerazione del distributore non è erogata direttamente dal cliente bensì dalla società prodotto ponendo il consulente in pieno conflitto di interessi perché è pagato in funzione del prodotto/servizio venduto. Così esplodono le unit linked, la cui componente assicurativa non deve essere rendicontata nel report Mifid, lasciando credere che gli italiani improvvisamente siano diventati sensibili al tema dei rischi, pur rimanendo un popolo palesemente sotto-assicurato. Quanto può essere sostenibile questo modello di business? Difficile fare previsioni, impazza da 40 anni. Dipende dal mercato, dalla rassegnazione che accompagna gli investitori, abituati a risultati modesti. Qualche perplessità la solleva questo comportamento degli italiani: siamo esigenti e critici quando scegliamo dove mangiare, ma per gli investimenti tendiamo a valorizzare la dimensione, la capillarità, la pubblicità, fingendo di non capire che sono gli elementi tipici della grande distribuzione. Che può essere solo altamente standardizzata. E allora «fast investment» per tutti (riproduzione riservata)
*ceo di Scm sim
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Fonte: Milano Finanza del 24/11/2021